Guido Pensato
Tempus fugit Alfonso delli Carri e la fotografia dell’assenza
Il tempo scorre, inesorabile. Corre: tempus fugit. Anche la luce si disfa, si dilegua altrettanto velocemente. Come è stato rapido – sembra ed è nella elementare esperienza di ciascuno – il suo apparire: fiat lux. Lo sa bene chi guarda per vedere al di là dello sguardo e dell’istante. Gli artisti, da sempre. I fotografi, in particolare, da centocinquant’anni.
E’ anche per questo, forse, che da sempre il “ritrarre”, il fissare in un’immagine i tratti di un essere vivente equivale, o quanto meno è avvertito come un atto di spossessamento e, insieme, di impossessamento; una sottrazione, una cancellazione, una ruberia. Il tutto a lungo sanzionato in sistemi culturali e da pratiche millenarie; ma anche dal pregiudizio come difesa sociale, individuale e collettiva. Sopravvivono tuttora pratiche di uccisione simbolica per il tramite dell’immagine. Se non nelle forme note e praticate alle origini delle civiltà, in altre, altrettanto “violente” quanto simboliche, in uso presso popolazioni immerse nel sincretismo culturale e religioso nei diversi continenti. Ma anche presso le vaste frange dedite a “rituali magici” nel cuore delle aree metropolitane del mondo civilizzatissimo e tecnologico del terzo millennio. Solo la morte autorizza, talora, l’uso dell’immagine come “promemoria” a favore dei vivi e del loro dolore. Spesso il diniego si protrae “post mortem”. Oggi addirittura sanzionato dall’intervento di questa o quella authority istituzionale e da norme a tutela non dei “soggetti”, ma direttamente dell’immagine e del suo sfruttamento commerciale. Tutto, insomma, sembra congiurare contro una pratica pacifica, “innocente”, leggera, creativa del “raffigurare”, “ritrarre”, “riprendere” persone reali, vere: l’“uomo della strada”, i “bambini che giocano”, le “donne che leggono”, ecc. ecc.
Negli occhi, ripetiamo da sempre, risiedono l’anima e le verità ultime che riguardano gli umani; e, per il loro tramite, le vicende e le storie di cui sono protagonisti, testimoni, vittime. Qualcosa di più di un luogo comune, se possiamo chiamare a fondarlo, alternativamente o contemporaneamente, una sorta di romanticismo perenne, di elementare freudismo; oppure, come detto, un riferimento a residuali ma inestinguibili e sopravviventi tracce (sotto traccia) di simbolismi magici variamente camuffati, aggiornati e adeguati a una presunta modernissima (o post-moderna) contemporaneità.
Ma c’entra tutto questo versante-confine antropologico e psicologico con la materia “consustanziale” alla fotografia del ritratto, al suo fondarsi scientificamente – anche per quel che riguarda la creatività – sul rapporto tempo/luce, con la coppia “sorpresa/sgomento” (l’altra, opposta, essendo quella “attesa/compiacimento narcisistico”) che sembra cogliersi, quasi sempre, negli occhi “rubati” di chi è destinatario dello sguardo “rapinoso” del fotografo?
Gli scatti di Alfonso delli Carri – come sempre accade con la fotografia – fermano l’istante. Ma mai come in questo caso i protagonisti – l’autore e i soggetti – sanno che si tratta di una finzione, di un’illusione. Il tempo scorre oltre l’istante e se lo trascina con sé, al di là di tutto e di tutti. E’ proprio importante sapere o immaginare che si tratta di persone chiuse in mezzi di trasporto disparati?…se quel che resta è proprio l’idea del transito, della fugacità, del vuoto irrappresentabile (non fotografabile); e ancora: dello sgomento per il furto – d’anima, di tempo – appena perpetrato. Del vuoto che resta. Quel che resta non è altro che questo. E l’allusione al pensiero cui delli Carri si aggrappa – “Pensieri in attesa” sarebbe il titolo che accomuna le immagini – è, appunto, un’illusione ottica più che una constatazione, una registrazione dei fatti. Ingannato dalla velocità degli scatti – “pensieri inattesi” il titolo vero, più giusto? – appare, per quanto invisibile all’ottica, atterrito egli stesso; al pari delle persone che ritrae e dalle quali si ritrae, perché si accorge (e finge di non accorgersi) dell’“inconscio fotografico” che ha messo in azione/che lo ha messo in azione.
E’ una vecchia questione: e, comunque, fosse anche vero (così credono molti fotografi/così crede e pretende molto pubblico) che la fotografia, almeno certa fotografia, ci restituisce e debba restituirci la realtà così come è, è il caso di ribadire che la realtà non ha nulla da spartire con la fotografia, nessuna fotografia; perché la realtà virtuale, tutta la realtà virtuale, intesa/concepita/costruita come reale, è un lusso, una replica, una ridondanza dannosa e per fortuna inesistente, che non possiamo in nessun caso permetterci. La fotografia ci restituisce altro, oltre la realtà; il frutto, l’invenzione della immaginazione, della creatività o del caso o dell’ “inconscio tecnologico”/”fotografico” (Franco Vaccari). Protagonisti (o comparse?) ne sono, alla pari, il fotografo, il soggetto-oggetto e l’oggetto-camera.
Ma se la messa in campo dell’inconscio fotografico può essere l’approdo cercato, l’esito voluto di una pratica artistica conseguente a un sistematico lavorio teoretico, in Alfonso delli Carri sembra essere il risultato di una consapevole marginalizzazione delle tecniche apprese, sperimentate e, in questo caso e per questo caso, dimenticate e depositate nella camera: “che sa cosa fare e come farlo”.
Alfonso delli Carri, infine, consapevolmente o meno, attraverso le immagini di questa mostra, si descrive, forse si riconosce e forse no. E per questo, nel dubbio, “si ritrae”, prende le distanze. In ogni caso incarna e rappresenta l’ambiguità e la complessità, la fragilità e la forza, l’inattendibilità e l’assertività della fotografia e dell’arte come scarto, scostamento, transito. Che provano a sfiorare la indescrivibile quotidianità di uomini che, ormai rassegnati, attraversano la storia, senza dare nemmeno a vedere di farla. Perché la precarietà, la fugacità non si conciliano con la durata, la persistenza nel tempo.
Questa raccolta di foto, vuole essere semplicemente un piccolo spaccato di emozioni che tutti noi in talune circostanze “viviamo” nella nostra mente.
Se smettessimo di lavorare o impegnare la nostra mente in attività pratiche o intellettuali, ci limiteremmo “si fa per dire” a pensare.
Per molti è una abitudine o una routine, per altri è una rara occasione.
Molti fuggono da tali occasioni perché consapevoli del disagio di dover affrontare anche solo virtualmente sogni o problemi.
Quindi si riversano nel lavoro o in attività che comunque li coinvolgono interamente.
La raccolta di foto è incentrata in quella società che, abitualmente o giornalmente, dedica una parte del suo tempo a raggiungere un luogo, spesso la propria abitazione o il proprio lavoro, con mezzi pubblici e li obbliga a riflettere e a pensare.
Obbligati non perché costretti, ma perché pensare o sognare, osservando il mondo che li circonda li dispensa da quella ricerca forsennata che spesso è la socializzazione.
Pensieri in attesa è la ricerca di una speranza.
La speranza che quei pensieri (mi auguro sogni) possano diventare azione una volta che le porte del mezzo si apriranno.
Guido Pensato
Tempus fugit
Alfonso delli Carri e la fotografia dell’assenza
Il tempo scorre, inesorabile. Corre: tempus fugit. Anche la luce si disfa, si dilegua altrettanto velocemente. Come è stato rapido – sembra ed è nella elementare esperienza di ciascuno – il suo apparire: fiat lux. Lo sa bene chi guarda per vedere al di là dello sguardo e dell’istante. Gli artisti, da sempre. I fotografi, in particolare, da centocinquant’anni.
E’ anche per questo, forse, che da sempre il “ritrarre”, il fissare in un’immagine i tratti di un essere vivente equivale, o quanto meno è avvertito come un atto di spossessamento e, insieme, di impossessamento; una sottrazione, una cancellazione, una ruberia. Il tutto a lungo sanzionato in sistemi culturali e da pratiche millenarie; ma anche dal pregiudizio come difesa sociale, individuale e collettiva. Sopravvivono tuttora pratiche di uccisione simbolica per il tramite dell’immagine. Se non nelle forme note e praticate alle origini delle civiltà, in altre, altrettanto “violente” quanto simboliche, in uso presso popolazioni immerse nel sincretismo culturale e religioso nei diversi continenti. Ma anche presso le vaste frange dedite a “rituali magici” nel cuore delle aree metropolitane del mondo civilizzatissimo e tecnologico del terzo millennio. Solo la morte autorizza, talora, l’uso dell’immagine come “promemoria” a favore dei vivi e del loro dolore. Spesso il diniego si protrae “post mortem”. Oggi addirittura sanzionato dall’intervento di questa o quella authority istituzionale e da norme a tutela non dei “soggetti”, ma direttamente dell’immagine e del suo sfruttamento commerciale. Tutto, insomma, sembra congiurare contro una pratica pacifica, “innocente”, leggera, creativa del “raffigurare”, “ritrarre”, “riprendere” persone reali, vere: l’“uomo della strada”, i “bambini che giocano”, le “donne che leggono”, ecc. ecc.
Negli occhi, ripetiamo da sempre, risiedono l’anima e le verità ultime che riguardano gli umani; e, per il loro tramite, le vicende e le storie di cui sono protagonisti, testimoni, vittime. Qualcosa di più di un luogo comune, se possiamo chiamare a fondarlo, alternativamente o contemporaneamente, una sorta di romanticismo perenne, di elementare freudismo; oppure, come detto, un riferimento a residuali ma inestinguibili e sopravviventi tracce (sotto traccia) di simbolismi magici variamente camuffati, aggiornati e adeguati a una presunta modernissima (o post-moderna) contemporaneità.
Ma c’entra tutto questo versante-confine antropologico e psicologico con la materia “consustanziale” alla fotografia del ritratto, al suo fondarsi scientificamente – anche per quel che riguarda la creatività – sul rapporto tempo/luce, con la coppia “sorpresa/sgomento” (l’altra, opposta, essendo quella “attesa/compiacimento narcisistico”) che sembra cogliersi, quasi sempre, negli occhi “rubati” di chi è destinatario dello sguardo “rapinoso” del fotografo?
Gli scatti di Alfonso delli Carri – come sempre accade con la fotografia – fermano l’istante. Ma mai come in questo caso i protagonisti – l’autore e i soggetti – sanno che si tratta di una finzione, di un’illusione. Il tempo scorre oltre l’istante e se lo trascina con sé, al di là di tutto e di tutti. E’ proprio importante sapere o immaginare che si tratta di persone chiuse in mezzi di trasporto disparati?…se quel che resta è proprio l’idea del transito, della fugacità, del vuoto irrappresentabile (non fotografabile); e ancora: dello sgomento per il furto – d’anima, di tempo – appena perpetrato. Del vuoto che resta. Quel che resta non è altro che questo. E l’allusione al pensiero cui delli Carri si aggrappa – “Pensieri in attesa” sarebbe il titolo che accomuna le immagini – è, appunto, un’illusione ottica più che una constatazione, una registrazione dei fatti. Ingannato dalla velocità degli scatti – “pensieri inattesi” il titolo vero, più giusto? – appare, per quanto invisibile all’ottica, atterrito egli stesso; al pari delle persone che ritrae e dalle quali si ritrae, perché si accorge (e finge di non accorgersi) dell’“inconscio fotografico” che ha messo in azione/che lo ha messo in azione.
E’ una vecchia questione: e, comunque, fosse anche vero (così credono molti fotografi/così crede e pretende molto pubblico) che la fotografia, almeno certa fotografia, ci restituisce e debba restituirci la realtà così come è, è il caso di ribadire che la realtà non ha nulla da spartire con la fotografia, nessuna fotografia; perché la realtà virtuale, tutta la realtà virtuale, intesa/concepita/costruita come reale, è un lusso, una replica, una ridondanza dannosa e per fortuna inesistente, che non possiamo in nessun caso permetterci. La fotografia ci restituisce altro, oltre la realtà; il frutto, l’invenzione della immaginazione, della creatività o del caso o dell’ “inconscio tecnologico”/”fotografico” (Franco Vaccari). Protagonisti (o comparse?) ne sono, alla pari, il fotografo, il soggetto-oggetto e l’oggetto-camera.
Ma se la messa in campo dell’inconscio fotografico può essere l’approdo cercato, l’esito voluto di una pratica artistica conseguente a un sistematico lavorio teoretico, in Alfonso delli Carri sembra essere il risultato di una consapevole marginalizzazione delle tecniche apprese, sperimentate e, in questo caso e per questo caso, dimenticate e depositate nella camera: “che sa cosa fare e come farlo”.
Alfonso delli Carri, infine, consapevolmente o meno, attraverso le immagini di questa mostra, si descrive, forse si riconosce e forse no. E per questo, nel dubbio, “si ritrae”, prende le distanze. In ogni caso incarna e rappresenta l’ambiguità e la complessità, la fragilità e la forza, l’inattendibilità e l’assertività della fotografia e dell’arte come scarto, scostamento, transito. Che provano a sfiorare la indescrivibile quotidianità di uomini che, ormai rassegnati, attraversano la storia, senza dare nemmeno a vedere di farla. Perché la precarietà, la fugacità non si conciliano con la durata, la persistenza nel tempo.
Foggia, 16 novembre 2011
Pensieri in attesa
di Alfonso delli Carri
Questa raccolta di foto, vuole essere semplicemente un piccolo spaccato di emozioni che tutti noi in talune circostanze “viviamo” nella nostra mente.
Se smettessimo di lavorare o impegnare la nostra mente in attività pratiche o intellettuali, ci limiteremmo “si fa per dire” a pensare.
Per molti è una abitudine o una routine, per altri è una rara occasione.
Molti fuggono da tali occasioni perché consapevoli del disagio di dover affrontare anche solo virtualmente sogni o problemi.
Quindi si riversano nel lavoro o in attività che comunque li coinvolgono interamente.
La raccolta di foto è incentrata in quella società che, abitualmente o giornalmente, dedica una parte del suo tempo a raggiungere un luogo, spesso la propria abitazione o il proprio lavoro, con mezzi pubblici e li obbliga a riflettere e a pensare.
Obbligati non perché costretti, ma perché pensare o sognare, osservando il mondo che li circonda li dispensa da quella ricerca forsennata che spesso è la socializzazione.
Pensieri in attesa è la ricerca di una speranza.
La speranza che quei pensieri (mi auguro sogni) possano diventare azione una volta che le porte del mezzo si apriranno.